Addio a Mikhail Gorbačëv, uno degli ultimi giganti del ‘900. Insieme a San Giovanni Paolo II e Ronald Reagan decretò la fine del comunismo sovietico.
Mentre in Russia Putin e i suoi uomini continuano a inneggiare a un ritorno alla grande Unione Sovietica e i bombardamenti sull’Ucraina sono sempre più intensi, il 30 agosto moriva a Mosca, all’età di 91 anni, Mikhail Sergeevič Gorbačëv, premio Nobel per la pace e ultimo leader dell’URSS.
Era l’ultimo dei tre giganti politici mondiali del novecento e la notizia ha riportato alla mia mente quanto lui, il Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e il Papa San Giovanni Paolo II siano stati protagonisti assoluti di un cambiamento epocale per il mondo intero.
Tutto iniziò nel ormai lontano novembre 1985, a Villa Fleur d’Eau a Versoix, sul lago Lemano (il lago di Ginevra) in Svizzera, dove era stato organizzato il summit tra Reagan e Gorbačëv.
Al summit si era arrivati sull’onda di una gravissima fase di tensione nei rapporti tra Mosca e Washington. Eletto nel 1980, Ronald Reagan aveva avviato il più grande programma di riarmo del Dopoguerra, in risposta alla linea sempre più aggressiva del Cremlino, culminata con l’invasione dell’Afghanistan nel 1979.
La punta di diamante del riarmo americano era la Strategic Defense Initiative, il piano avveniristico di uno scudo spaziale antimissili, diventato celebre come il progetto Guerre Stellari. Anche se si trattava di un sistema ancora sperimentale, la sua ambizione aveva messo a nudo il ritardo tecnologico dell’Unione Sovietica ed esposto le crepe di un sistema in piena crisi politica: tre segretari generali del Pcus — Breznev, Andropov e Cernenko, tutti anziani e malati — erano morti nell’arco di tre anni.
Poi, nell’aprile 1985, era apparso Gorbačëv, un leader giovane, convinto di poter riformare il sistema sovietico e soprattutto deciso ad aprire un dialogo a tutto campo con l’America e l’Occidente.
Quando a Ginevra furono l’uno di fronte all’altro, si strinsero la mano per sette lunghi secondi, guardandosi in viso e sorridendosi. E fu Reagan a far saltare il protocollo, proponendo al capo del Cremlino di fare una passeggiata prima di iniziare i colloqui a Villa Fleur d’Eau. Fu in quella conversazione in riva al lago, che Reagan propose a Gorbačëv un patto di reciproca alleanza contro un eventuale attacco degli alieni. «Ci aiutereste?», gli chiese. «Certo signor Presidente», rispose Gorbačëv. «Anche noi lo faremmo». Una fantasia cinematografica, tipica di un ex attore come Reagan, ma di grande forza suggestiva.
Non successe quasi nulla a Ginevra, ma la strada era aperta e nel 1991 le superpotenze adottarono un trattato per la proibizione degli euromissili, ovvero dei missili nucleari a raggio intermedio installati da USA e URSS sul territorio europeo.
Mentre Reagan e Gorbačëv salivano al potere e iniziavano la loro politica rivoluzionaria, un altro personaggio stava consolidando in quegli anni la sua leadership sia come guida spirituale sia come politico: si trattava del polacco Karol Józef Wojtyła, salito al soglio pontificio nel 1978 con il nome di Giovanni Paolo II.
Papa Giovanni Paolo II, salutò con gioia l’arrivo sulla scena internazionale dei due Presidenti, in quanto il Santo Padre era fermamente determinato a porre fine al regime comunista sovietico.
Non mi dilungo sulle note vicende storiche, ma questa incredibile “alleanza” tra Reagan, Gorbačëv e Giovanni Paolo II portò, nel novembre 1989, alla caduta del muro di Berlino, il simbolo della divisione tra Europa occidentale e orientale e tra il blocco statunitense e quello sovietico.
Così, grazie a questi tre straordinari personaggi, Gorbačëv iniziò in Russia quel processo di rinnovamento politico, economico, culturale e sociale che prese il nome di Perestrojka e che portò alla fine dell’Unione Sovietica.
Riccardo Bonsi
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