L’insostenibile leggerezza della resilienza

Una parola molto di moda, anche troppo.


“Resilienza”, una parola che leggiamo su tutti i giornali, che sentiamo in molte trasmissioni sia video che radio e che sino a qualche anno fa era ad appannaggio di pochi eletti.

Fino al 2014 il termine “resilienza” destava un interesse modesto, un interesse specialistico.

Invece, dal 2014 in poi, e progressivamente di anno in anno, il concetto di resilienza è diventato sempre più coinvolgente, sempre più usato, sempre più ricercato, sino a diventare, ai nostri, un vocabolo abusato, una vera e propria ossessione.

Niente di nuovo sotto il sole, sia chiaro, le parole sono scorci di pensiero e anche i pensieri possono attraversare periodi di maggiore o minor successo.

Il termine “resilienza” non è un vocabolo nuovo, girava in Italia sin dal Settecento; il suo significato originario deriva dal latino “resilire”, in particolare dal suo participio presente “resiliens – resilientis”. 

Il verbo “resilire” si forma dall’aggiunta del prefisso “re-“ al verbo “salire” e significa saltare, fare balzi, zampillare, ma anche saltare indietro, ritornare in fretta, rimbalzare, ripercuotersi e, in senso traslato, assume il significato di ritirarsi, restringersi e contrarsi.

Questi significati sono stati raccolti dalla fisica, che hanno fatto del termine resilienza la capacità di un materiale di resistere a urti, assorbendone l'energia attraverso una deformazione elastica (banalmente, si può pensare al tappeto elastico), poi restituendola e tornando alle condizioni originali.

Il passaggio dalla fisica alla psicologia è stato breve e così, accanto ai materiali da costruzione resilienti e ai tessuti resilienti che si tirano e non si sformano né strappano, si è giunti alla resilienza quale capacità psicologica di reagire a un trauma.

Un urto morale può impressionarci, demoralizzarci, rattristarci, ma, grazie alla resilienza, con spirito e adattabilità, utilizziamo l’urto subito come trampolino per riprenderci come e meglio di prima. 

Il primo accenno giornalistico alla resilienza compare nel 1986 in un articolo dedicato a Sam Shepard; del commediografo statunitense si descrivono i personaggi, sorprendentemente capaci di sostenere le sollecitazioni violente cui sono sottoposti.

Ci sono analisi molto approfondite, capillari e circostanziate sul modo e sui percorsi che hanno portato il termine resilienza ad affermarsi, ma c'è una riflessione, forse poco accademica, che possiamo avanzare circa questo successo: la resilienza è una nuova “virtù”, una virtù che spira con forza, tutta riscatto, tutta rilancio, una virtù che vogliamo per noi e per gli altri.

Il termine resilienza assume questo valore simbolico forte in un periodo in cui l’accesso interpretativo più frequente alla condizione economica, politica, ecologica mondiale è fornito da un’altra parola, “crisi”: lo spirito di resilienza rappresenta la capacità di sopravvivere alla crisi senza soccombere e anzi è la virtù che ci consente di reagire a essa con spirito di adattamento, ironia, elasticità mentale e capacità di rinnovarsi.

Ecco che resilienza diventa una parola eroica, che rappresenta il riscatto.

Peccato che, purtroppo, giornali, radio, televisioni e persino i politici ne stiano abusando ed ecco che, improvvisamente, quella parola leggera come una piuma, ma forte come una roccia, diventa ripetitiva, ossessiva, quasi antipatica.

Peccato, ancora una volta, come diceva il grande Gino Bartali « L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare ».


Riccardo Bonsi

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